Venere e Marte, deità di coppia

Sappiamo che gli Etruschi, nel loro idioma ancora non del tutto decifrato, li chiamavano Turan e Laran. Sono parole per noi sconosciute dato che la nostra lingua, derivata in larga parte dal latino, ci ha abituato a chiamarli Venere e Marte. O al più, volendo far sfoggio di una qualche reminiscenza classica, Afrodite e Ares.

E’ interessante come tutte le maggiori civiltà antiche che ci hanno preceduto nelle varie aree del bacino del Mediterraneo abbiano trovato un posto nel proprio pantheon per divinità analoghe, che sembrano impersonale tratti cardinali della psiche o ambiti essenziali della vita umana. La bellezza imperfetta e irresistibile, l’amore di Venere. E poi l’aggressività, un istinto in qualche modo padre della violenza e delle guerre di cui il mondo antico era pieno. Ma Marte era anche qualcosa di più sottile, era anche la divinità dei duelli, dello spirito agonistico e, insieme a Venere, della fertilità.

E’ forse questo che i popoli dell’antichità vedevano in Venere e Marte: una coppia. Non necessariamente di persone ma un’essenza di impulsi ed emozioni che costituivano complementarità.

Ed è proprio questa essenza che l’arte ha cercato di catturare nel loro significato più profondo. In ordine cronologico, certamente per prima la scultura, almeno per quanto è arrivato fino a noi. Mirabile la cosiddetta Afrodite Cnidia, scolpita con ogni probabilità dal grande Prassitele e, di conseguenza, raffigurante Frine, sua musa e cortigiana più celebre dell’antica Grecia, donna emancipata, di grande intelligenza e cultura. E poi, in epoca ellenistica, una delle opere antiche più famose al mondo: la Venere di Milo, conservata al Louvre. Ma sono giunte a noi opere ancora precedenti, statuette di arte orafa etrusca raffiguranti il dio Laran, nell’atto di brandire gli scudi rotondi e decorati a loro propri. E sono gli scudi etruschi a portarci all’arte pittorica, gli stessi che troviamo nella tomba omonima, fatta realizzare dalla potente gens Velcha a Tarquinia. E poi, giungendo al Rinascimento fiorentino, una delle opere più note è quella di Sandro Botticelli, intitolata appunto “Venere e Marte”, realizzata nel 1483, oggi esposta alla National Gallery di Londra. Si tratta di un’opera capace di mostrare in maniera vivida e quasi materiale un concetto universalmente giusto e all’epoca di Botticelli per certi versi coraggioso: il trionfo dell’amore sulla forza. Sono molti i geni che si sono poi cimentati con la stessa opera: il bacio sensuale di Tiziano, i colori di Paolo Veronese, la geometria del Tintoretto o, per tornare alla scultura, la plasticità settecentesca di Canova. Ma, in tempi decisamente più contemporanei, anche la musica ha dedicato opere alla coppia Venere e Marte. Basti pensare all’album omonimo di Paul McCartney o alla recente uscita di un’icona pop come Marco Mengoni.

Pur così ritratti da grandi artisti, in un certo senso non è però necessario andare in un museo per vedere Venere e Marte. Basta ritrovare la bella e sana abitudine di guardare il cielo notturno. Quel cielo che i popoli antichi conoscevano così bene, tanto da attribuire agli astri comportamenti umani e al contempo di ricomporre sulla terra equilibri celesti. Lo stesso cielo che ancora i nostri nonni erano abituati ad osservare “a veglia” nelle aie contadine. E allora non è certo un caso che Venere sia il pianeta più di tutti visibile nel cielo, che precede il sole prima dell’alba e lo saluta dopo il tramonto.  E compia questa simbolica danza intorno al sole, con Marte che dall’altra parte del cielo sembra ammirarlo, splendendo anch’esso nel cielo notturno.