Pasqua e Pastiera, sacro e profano
L’irrazionalità con la quale un popolo che fino a ier l’altro combatteva con la fame quotidiana si azzuffa per dare una patente di antichità a ricette che non possono – e non devono – essere fisse nel tempo proprio per la mancanza di ingredienti, o per la penuria, o per i gusti mutati è davvero difficile da comprendere, quasi come il tifo calcistico.
Perché ovviamente qui una ragione storica c’è ed è ben documentata: non tanto per i miti di Partenope, o delle mogli dei pescatori di Napoli, di cui si trova traccia da per tutto e che affondano le radici nel pittoresco più pittoresco. Ma già dal seicento di questa “pastiera” v’è traccia sopra tutto nei conventi della città, dalle parti di San Gregorio Armeno, con i chiostri profumati di fiori primaverili, la ricotta e le uova, e quel poco di farina che serve per la frolla. E ancor prima si parla di una torta rustica, dolce e salata, con la provola a far da protagonista.
Ma quello che è davvero fisso, e questa volta sì, “rigorosamente”, è lo struggimento delle strade di Napoli a cavallo del Giovedì e del Venerdì Santo, quando il profumo millefiori s’ode davvero ovunque: e anche adesso che la pastiera si trova praticamente tutto l’anno, non si dimentica che il calendario liturgico si sovrapponeva – come si sovrappone – a quello gastronomico: perché la pastiera è buona sempre, ma come si gusta uno o due giorni dopo averla sfornata è cosa certa, non ce n’è.
«E,venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzara che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che nce poteva magnare n'asserceto formato.»
[Gianbattista Basile, La Gatta Cenerentola]